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Source: Gazzetta.it
Intervista con Enrico Quaranta
- Dettagli
- Published on Mercoledì, 17 Maggio 2017 16:39
- Scritto da Carlo Cammarella
- Visite: 1378
Pubblicato da Emme Record Label The King is Returning è l’ultimo lavoro del batterista partenopeo Enrico Quaranta, musicista versatile che ama fondere gli stili abbracciando un jazz che si tinge di funky e che rompe le barriere. Il disco si avvale della partecipazione di musicisti di fama tra cui spiccano senza dubbio il sassofonista James Senese e il trombettista americano Jeremy Pelt. Enrico Quaranta ci ha raccontato questa esperienza e ci ha parlato del suo ultimo disco.
Enrico, The King is Returnig oltre ad essere un progetto con diverse influenze e stili musicali rappresenta anche un percorso personale. Per cominciare, Enrico, ci vuoi parlare di questo aspetto del disco?
Prima di cominciare faccio un breve preambolo. Secondo me il jazz non è un genere catalogabile ma è paragonabile ad un albero con le sue varie ramificazioni. Non è un semplice ramo come potrebbe essere la musica raggae oppure quella latino americana, ma come la classica ha delle grosse fondamenta. Inoltre la storia del jazz è stata fatta da grandi musicisti che da un secolo a questa parte hanno arricchito sempre di più la musica, portando la propria identità creatività. Da questo albero sono cominciati a spuntare diversi rami e il jazz si è contaminato con il rhythm and blues e con il funky, mentre gli altri generi settoriali difficilmente si sono contaminati con il jazz. Questo albero ha rami di vari colori che sono stati portati nel giro di un secolo da grandi artisti che lo hanno arricchito sempre di più. Partendo da questo punto di vista posso dirti che nel mio percorso personale il mio disco è una medaglia dove l’elemento liberazione accomuna due aspetti: quello spirituale che rappresenta un messaggio biblico, richiamando il Re che ritorna per salvare i suoi, e quello musicale con un jazz che si libera dalle mode e dagli schemi di cui siamo ancora un po’ succubi.
Quali sono invece i linguaggi e gli stili che ti piace utilizzare maggiormente e che troviamo all’interno del disco?
Diciamo che quello che si ascolta dal disco rappresenta in toto quello che sono io realmente. C’è una bella differenza tra “il fare” e quello realmente sei!
Possiamo definire the King is Returnig come un connubio stilistico tra jazz mediterraneo e musica d’oltreoceano?
In parte posso dire di si. E’ una cosa che per certi versi è accaduta anche a Miles Davis diversi anni fa quando ha elettrificato il suono miscelando le ritmiche afro con il jazz. Il risultato fu una musica personalizzata composta secondo il suo modo di sentire e arricchita con questi ritmi. Essendo napoletano diciamo che l’Africa ce l’ho a due passi e per certi versi ci sono delle grosse somiglianze. Infatti mi sento molto percussivo, molto afro ed è una cosa porto dentro di me fin dalla nascita. Anche se non mi piace catalogare il mio modo di suonare ed il mio stile posso dirti che c’è una sorta di connubio tra il mio jazz “mediterraneo” e ritmi africani. Non per forza dobbiamo assegnare dei territori geografici: ognuno ha la sua identità e chi riesce a mantenerla ha fatto senza dubbio un ottimo lavoro.
Ci vuoi raccontare a questo punto come hai cominciato a studiare e soprattutto quale è stato i tuo approccio alla musica dagli inizi fino ad ora…
A partire da quando avevo 4 anni ho cominciato a percuotere pentole, bacinelle e coperchi. Durante la scuola media, invece di studiare ho cominciato a lavorare e con i soldi guadagnati ho cominciato a pagarmi un maestro di batteria. In seguito ho iniziato a camminare da solo come autodidatta utilizzando come maestri i dischi dei grandi musicisti americani. Il mio primo approccio, invece, è stato con i gruppi pop rock e poi man mano crescendo ho avito le mie esperienze con artisti di livello tra i quali cito anche la collaborazione con James Senese.
Chiaramente tutti i musicisti vengono influenzati e allo stesso tempo ispirati dal territorio in cui crescono e studiano. Per quanto riguarda la realtà partenopea e del jazz campano che cosa ci puoi dire? Quali sono le peculiarità che appartengono a questa scuola jazzistica?
In parte è vero. Quando ho cominciato ad ascoltare la radio nei primi anni ’70 in giro non c’era realmente qualcosa di appetibile, la musica più bella era senza dubbio nascosta e giravano le solite cose commerciali. Il mio primo maestro, però, cominciò a darmi dei suggerimenti su della musica nuova da ascoltare. A proposito mi ricordo quando sono andato a comprare il mio primo disco, un live di Billy Cobham. L’ho ascoltato e poi quando sono salito sull’autobus ho cominciato a piangere in un angolo perché non comprendevo il motivo per cui il sistema mi avesse nascosto questa musica così bella. Ero quasi in collera anche perché mi resi conto di aver perso tanto tempo. Da quel momento in poi ho visto la luce, ho smesso di sentire quel tipo di radio. Questo te lo dico perché ho trovato l’ispirazione ascoltando i musicisti americani in un momento di boom negli anni ’70 quando la musica esplodeva in modo pazzesco.
Secondo te queste caratteristiche in che modo si differenziano dal jazz nazionale italiano (se realmente si differenziano)?
Guarda, in generale a me non piace avere il ruolo di chi giudica e di chi si mette a fare delle catalogazioni. Secondo me, infatti, la musica rappresenta un mondo nobile e dal carattere universale. Non credo che ci siano dei punti di appartenenza territoriale e come dicevo prima i musicisti davvero bravi sono quelli che riescono a personalizzare al meglio la propria arte. Ci sono tanti bravi artisti in Campania ed in Italia e ognuno cerca di proporre quello che sente in cuor suo, visto che la musica nasce da un input spirituale interiore. Beati coloro che la esternano con grande personalità ed identità!
Parliamo della tua esperienza negli Stati Uniti. Cosa ti ha colpito maggiormente dei musicisti della grande mela e dell’ambiente jazzistico che proviene da lì?
Quello che mi ha colpito maggiormente negli Stati Uniti è che gli americani vivono la musica con grande naturalezza, basandola su quello che rappresenta la loro identità o personalità. Questa è una cosa che dovrebbe farci pensare: gli italiani, infatti, da anni hanno preso spunti da altri ed è arrivato il momento di farli diventare dei prodotti autentici. Questa secondo me è una chiave di lettura importante: la musica non deve essere un’applicazione ma deve essere vissuta con naturalezza. In America c’è grande libertà di espressione, vivono la musica con grande naturalezza come se fosse un laboratorio comune. In una parola ognuno ha il suo colore, la sua frequenza!
E per quanto riguarda il bagaglio culturale e musicale che ti porti dietro da quella esperienza cosa ti ricordi maggiormente?
Quello che mi è piombato addosso da questa esperienza e che ho imparato a mettercela tutta, a crederci per essere assolutamente me stesso, senza paure, liberandomi con grande naturalezza e soprattutto senza divismo, cosa che lì è inesistente. Queste sono le cose che mi ricordo di più, che in realtà sono quelle che ti danno una vera spinta per andare avanti e per essere sempre più creativi.
Grazie mille, intanto e in bocca al lupo per il futuro!
Grazie a voi a presto e in bocca lupo anche a voi!