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Avanguardia e tradizione in Changes: nuovo disco del Claudio Leone Trio
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- Published on Giovedì, 17 Novembre 2016 09:38
- Scritto da Andrea Turetta
- Visite: 1555
Un progetto dal sapore contemporaneo che non nasconde un profondo amore per la tradizione e per i grandi maestri del jazz. In questo modo possiamo riassumere l’essenza di Changes, disco che porta la firma del chitarrista romano Claudio Leone pubblicato dall’etichetta Emme Record Label. Una formazione giovane completata da Francesco Merenda alla batteria e da Stefano Battaglia al contrabbasso. Claudio Leone in persona ci ha raccontato la genesi, lo sviluppo e la storia di questo lavoro dai tratti avanguardistici dove si cela anche un forte amore per il passato.
Claudio, per cominciare l’intervista parliamo subito del tuo nuovo disco: in questo progetto, a nostro avviso, si percepisce la presenza di un jazz contemporaneo ed avanguardistico. Ci vuoi descrivere le caratteristiche principali di Changes?
È certamente un album dalle sonorità contemporanee ma c’è anche un profondo amore per la tradizione jazzistica. Nella track list compaiono un rhythm changes e un blues, le due forme in assoluto più adoperate nella storia del Jazz. È in fondo un’operazione simile a quella che fanno certi chef quando, partendo da un piatto, tradizionale, ne fanno qualcosa di nuovo, di personale. Diciamo che in questo disco ho utilizzato ingredienti e spezie decisamente insoliti!
Soffermiamoci un attimo sul titolo del disco, Changes. Quanto è importante il cambiamento nella tua musica e soprattutto quanto ha inciso nelle tue composizioni?
Per un jazzista, lo studio devoto dei maestri del passato è imprescindibile: Charlie Parker, Miles Davis, Cannonbal Adderley, John Coltrane, Thelonious Monk, Bill Evans, Dexter Gordon, Sonny Rollins e tutti gli altri grandi. Tuttavia, è solo una faccia della medaglia, perché non ci è richiesto semplicemente di eseguire fedelmente la loro musica (come può avvenire per la musica classica), ma di assorbirne la lezione per creare qualcosa di nuovo e originale. Si innesca a questo punto un meccanismo estremamente affascinante: più penetriamo nel profondo della loro musica, più la nostra musica risulterà fresca, creativa e innovativa. Più ci limitiamo ad uno studio superficiale dei nostri modelli, più quello che suoniamo sarà, inevitabilmente, una brutta copia di qualcos’altro. È un vero e proprio paradosso: più siamo fedeli allo spirito dei grandi musicisti del passato, alla loro straordinaria dedizione alla bellezza e all’innovazione, più saremo ricompensati con una nostra forte identità espressiva. Se le cose cambiano è perché, in fondo, sono rimaste le stesse.
Non è un caso, dunque, che all’interno di questo progetto ci siano due brani con lo stesso titolo ma registrati, probabilmente, in fasi diverse?
Sì, si tratta di due take del brano “The Winter In Boston” registrate l’una di seguito all’altra. Suonando uno stesso brano per più take in studio, si tende spesso a cercare di replicare quello che si era suonato prima, nella ricerca un po’ utopistica dell’esecuzione “perfetta”. Ciò tuttavia è impossibile, ovviamente. Se invece si ha il coraggio di rischiare e si prova a realizzare qualcosa di diverso, il risultato sarà ogni volta unico. Ho scelto di includere entrambe queste take nell’album per dimostrare come sia impossibile suonare due volte allo stesso modo uno stesso brano.
Qual è invece il tuo approccio alla chitarra e quali sono i modelli stilistici che preferisci?
Credo di avere un approccio alla chitarra molto poco chitarristico. Cerco l’ispirazione in altri strumenti, soprattutto nei fiati, per quanto riguarda la varietà delle articolazioni possibili, e nel pianoforte, per quanto riguarda la polifonia e l’indipendenza delle parti. Quando improvviso, cerco di pensare più come un musicista che compone in maniera estemporanea. La chitarra è per me più un mezzo attraverso cui esprimere delle idee, un veicolo. Naturalmente occorre conoscere alla perfezione il proprio strumento e per questo occorre lo studio di anni.
Per quanto riguarda i miei modelli stilistici, avrei avuto più facilità a rispondere fino ai miei 19-20 anni. Ora i chitarristi che ho studiato e che mi hanno influenzato sono talmente tanti che mi è davvero difficile elencarli tutti. Ci provo, comunque. Per lo swing e il fraseggio, John Scofield e Mike Moreno. Per il lirismo e l’eleganza, Jim Hall e Pat Metheny. Per le intricatezze armoniche e contrappuntistiche, Gilad Hekselman e Ben Monder. Per l’inventiva e la melodia, Kurt Rosenwinkel.
Francesco Merenda e Stefano Battaglia sono i membri di questo trio: ci vuoi raccontare come nasce la vostra collaborazione?
Ho iniziato a suonare in trio con Stefano e Francesco esattamente tre anni fa, quando fummo chiamati a partecipare ad un festival jazz di Roma. Bastarono un paio di prove per capire che il progetto aveva qualcosa di speciale: i brani che avevo scritto fino a quel momento per altre formazioni assumevano una dimensione del tutto nuova. Insieme eravamo disposti a prendere molti rischi, il che rendeva la musica imprevedibile e sempre fresca. Da allora iniziai a concentrare sempre più energie su questo progetto: scrivevo una nuova composizione o un nuovo arrangiamento ogni volta che ci incontravamo e ben presto il repertorio di brani specificamente concepiti per questo trio divenne consistente.
Fummo chiamati a suonare in diversi festival e di volta in volta le composizioni acquistavano sempre più slancio ed energia. Ricordo perfettamente il momento in cui pensai che la musica era matura per essere registrata e documentata con un album. Avevamo appena concluso un breve ma intenso tour alla fine della scorsa estate, culminato con la partecipazione alla rassegna "The art of the trio", all'interno del festival jazz di Maratea. Riascoltando la registrazione del live notai come ormai eravamo in grado di seguirci a vicenda con grande facilità perché ci conoscevamo molto bene musicalmente. Bastava l'intuizione di uno dei tre per portare estemporaneamente la musica verso una direzione inaspettata, mai seguita prima.”
Quali sono, invece, i tuoi punti di riferimento, ovvero quei musicisti che hanno contribuito alla tua crescita e a che hanno contribuito alla tua formazione professionale?
Anche qui, fare una cernita è impresa alquanto ardua. Se parliamo dei miei insegnanti, citerei sicuramente Mick Goodrick, con cui ho studiato per due anni a Boston e che, da quarant’anni a questa parte, è punto di riferimento imprescindibile della didattica chitarristica a livello internazionale. Altro grande musicista che mi ha insegnato moltissimo è Tim Miller, chitarrista semplicemente straordinario. Infine voglio ricordare Dave Santoro, contrabbassista storico di Jerry Bergonzi, forse l’insegnante con le più vaste conoscenze sull’arte dell’improvvisazione e sulla tradizione jazzistica che abbia mai avuto.
Dal punto di vista compositivo, i musicisti che più apprezzo sono Wayne Shorter, Dave Holland e Burt Bacharach. Come improvvisatori, Brad Mehldau, Chris Potter e Keith Jarrett. Infine, i due musicisti che ho studiato di più e che, nonostante ciò, riescono sempre a stupirmi sono J. S. Bach e Charlie Parker: non solo due geni
assoluti, ma anche due esempi di dedizione quasi soprannaturale alla musica, alla ricerca infaticabile della Bellezza attraverso i suoni.
Chiudiamo l’intervista con una proiezione verso il futuro: quali saranno i vostri futuri impegni e quale potrebbe essere, invece, l’evoluzione di questo progetto?
Cercheremo di portare in giro il più possibile questa musica. È un repertorio che amiamo suonare dal vivo. Ci piacerebbe anche che i vostri lettori ci seguissero direttamente perché sicuramente porteremo presto il progetto in tour anche in Veneto e nel nord Italia. Possono farlo alla pagina:
www.facebook.com/claudioleonemusic/
Grazie mille e a presto.